OLIVIERO GESSAROLI
L'equilibrio
che è armonia
Artista votato al paesaggio,
ogni paesaggio è anche un ritratto.
Oliviero Gessaroli o l’esperienza del limite
C’è invero nella produzione di Oliviero Gessaroli qualcosa che è transitivo e però anche intransitivo al contempo, qualcosa di mitico e reale. Come se dopo i segni tradotti sulla carta o dopo un’azione creativa compiuta oppure ancora in stato avanzato, insorgesse la pressione impetuosa e inflessibile di una materia che risponde non al pensiero che accompagna la gestazione dell’opera ma a qualcosa di incalzante che inevitabilmente sfocia in un nuovo ricominciamento. Qui l’oggetto contemplato e trasfuso nell’operazione artistica (si dica per tutti un paesaggio), l’oggetto resosi accessibile tramite lo sguardo o la memoria interiore, quasi si dissolve o meglio opacizza nelle sue dorsali di fondo, pur mantenendo una certa compattezza, e alla fine rifluendo in qualcos’altro, dentro uno spazio imprevedibile quasi primordiale e entro un’assenza del tempo. Ovvero in una totalità senza fine, appunto incommensurata, che è governata da pulsioni necessarie e non resistibili.
Ci sarebbe da chiedere cosa significhi il paesaggio in Gessaroli (anche quando è riconoscibile nelle sue determinazioni fisiche), cioè cosa esso designi. In molti esempi desumibili dai suoi fogli, il cielo si apre in una sua immensità giusto sopra il paesaggio. Esso è in parte natura, ma in parte anche rappresentazione mentale di una propria natura interiore, come del resto è nella nostra tradizione occidentale dal Trecento e segnatamente dall’Ottocento in poi: proiezione di un sentimento e allo stesso tempo allontanamento dalle contingenze umane. È materia, quantunque in senso pittorico (come meglio si dirà in seguito), conforme a uno stato d’animo che disabitui da un universo convenuto ed esterno, mentre qui, in Gessaroli, essa risponde a ragioni interne e latamente medianiche. Uno scenario non trattato a un riguardo naturalistico, ma all’opposto realtà esistenziale o meglio guida verso qualcosa che si muova su un riscontro esistenziale.
Se, un po’ leopardianamente, questa natura appare nelle opere di Gessaroli quasi distaccata e indifferente, lontana e chiusa in se stessa, pure si coglie uno sguardo soggettivo inteso a scrutare ed esplorare. Con una presso che celata forma di sensibilità che trascende ogni pathos e ogni forma di lirismo trasferiti in un’entità sovrastante, enigmatica, dove sembra non succedere nulla e dove tutto è senza attese e impazienza.
Eppure, all’origine e alla base del lavoro di Oliviero, c’è proprio un paesaggio marchigiano, mediato da antecedenti tavole incisorie di Renato Bruscaglia, che è stato suo maestro e la cui lezione formale è accolta dal nostro non più graficamente ma invece pittoricamente, adottando l’acquerello. Aprendo per sé un percorso le cui occorrenze formali, in varie guise e stilematiche e tecniche, forzano i materiali realistici sfumandoli e sprofondandoli in una vasta quiete, volgendo il colore in flusso, in simbolo e non più in aggettivazione decorativa. L’arte è astrazione, ha avuto a rilevare a suo tempo Paul Gauguin. Ma qui, nel nostro caso, non si tratta di una peculiarità tecnica o di un semplice astrattismo ma all’opposto di materia assunta nella sua essenzialità formale. Materia che è tale proprio nello spazio del quadro o della scultura.
In questa situazione e in un certo momento di evoluzione, la linea delle immagini tende a sollevarsi dalla propria base, paesaggio o oggetto che sia, disegnando profili sovrastati dall’annebbiarsi delle immagini e da un impasto denso e scuro del colore che catapulta le cose in un suo fondo lontano ed estremo. Anche le didascalie, in involontario simbolismo, mutano: passando dall’indicazione di Paesaggio al Senza titolo; rilevando scorrimenti di fiati (Il vento) ma anche squassamenti (Tsunami) e alla fine, dopo tutto questo sommovimento, aprendo un quieto e silente affondamento nel gran mistero della natura. Tutto è dato – nel caso della pittura (ma il principio non cambia negli esempi della ceramica e del lavoro plastico) – da una materia (larghi strati di croma, larghe linee) che si espande e anche deflagra: per forzare il mistero di un’esistenza che non è però la nostra esistenza personale e che per muovere alla volta di entità ulteriori vive in perenne tensione. Sino a quando compare una luce, un Albore (riprendendo il titolo di un’opera) pur dentro un impressionismo sfocato oltre il pur calmo profluvio del colore.
L’artista dispone così la propria lingua su slarghi formidabili, con il pensiero che riflette su di sé nell’autocoscienza ma soprattutto nell’utilizzo dei materiali. Alla base di tutto troviamo un segmento, un qualche tratteggio, una pennellata. Insomma un seme. Gessaroli non privilegia una tecnica, o meglio un’unica strumentazione e mai si affida ad identici materiali. Ove in origine la sua vocazione è grafica, né poteva essere diversamente per uno che aveva frequentato la Scuola di Urbino, essa si muta nel seguito nella levità sfumata dell’acquerello accompagnata a una multiforme e multifunzionale materia di base, selezionata a seconda della porosità e dei rifrangimenti di luce o di altro ancora (carta Bibbia, Fabriano, Murillo, Archese ecc.) e percorsa a intermittenza da matite che anche si accompagnano all’acquerello e da penne a china e, nel caso delle operazioni plastiche, da legni più plexiglas, da terra refrattaria bianca o da cementi con resina (Kèramos).
Nulla però di preordinato, ma tutto conforme agli impulsi istantanei di mente e mano. In una sorta di automatismo, e anche nell’interscambio emotivo con la sua compagna, Anna Carletti, la scrittura artistica procede per proprio conto, lasciando in disparte il decrittivismo, abbandonando l’effimero per l’essenziale, sciogliendo la referenzialità che sempre sta in agguato in una sorta di unità primigenia nella quale viene fatta consistere l’essenza stessa dell’opera.
Infine, per dirla con un enunciato celebre di uno scrittore francese, Philippe Sollers, la scrittura artistica di Oliviero Gessaroli compie l’esperienza di un limite al quale però non si rimette intendendo raggiungerlo, o quantomeno lambire, un livello di assolutezza che egli, in uno con Carletti, chiama apertamente infinito. Riconducendone i tratti all’interno della tradizione occidentale (anche se nella ceramica Raku appare qualcosa di orientale e totemico). Così il quadro artistico, che è una espansione di quella radice formale richiamata poco sopra, istituisce con lo spazio al suo interno, con la materia pittorica che vi compare, un rapporto significativo.
Lo spazio, ovviamente, è quello che penetra in profondità, già estetizzato ed aperto. Non la rappresentazione di un tema ma all’opposto un vero organismo, o almeno a quest’ultimo tenderebbe la pittura di Gessaroli. Qualcosa che cessa di essere figurazione per proporsi a varco: liminalità di specie ontologica, ottenuta per dédoublement, struttura doppia a partire dal testo artistico.
E finalmente rivelazione, magari solo attesa oppure intuita, di una essenza: non già attraverso l’opera (o quanto essa riproduce), quando invece è l’opera la messa in essere di tutto ciò che è. Cioè gesto e pensiero formale che recuperi tutto ciò che è anteriore o vicino all’origine.